"Il nevrotico è una persona che costruisce un castello in aria. Uno psicotico è l’uomo che vi abita. Uno psichiatra è l’uomo che ne riscuote l’affitto" (jerome Lawrance)
Si chiama “stigma” il pregiudizio diffuso nei confronti di chi soffre di un disturbo psichico, che porta a etichettare il malato come “matto” e a considerarlo una persona di serie B.
Superarlo permetterebbe ai malati di accedere prima e meglio alle cure, ma a giovarne sarebbe l’intera società.
Almeno una persona su quattro sperimenta nel corso della vita una malattia mentale.
Questo significa che chi sta leggendo con ogni probabilità ha a che fare quotidianamente, in famiglia o sul lavoro, con qualcuno che ne soffre, oppure ne soffre egli stesso, ne ha sofferto o ne soffrirà.
Ma la domanda è: se tutti prima o poi nella vita ci imbattiamo nella sofferenza psichica, perché questo argomento è ancora tabù? Come mai chi ne è toccato personalmente di solito non ne parla, come se si trattasse di qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi?
E’ proprio questo il fenomeno di cui scrivo oggi: lo “stigma”, una parola di origine greca che significa “marchio”, quello che nell’antichità serviva a distinguere i padroni dagli schiavi.
Oggi questo termine indica un tratto discreditante, socialmente disapprovato, che declassa una Persona a “individuo di serie B”.
Nella percezione diffusa, soffrire di una patologia della mente equivale a essere una persona che vale meno degli altri.
Ma perché tendiamo a stigmatizzare la malattia mentale?
Alla base c’è un mix di tre fattori, tra loro concatenati: la mancanza di conoscenza, i pregiudizi e l’emarginazione dei malati.
Il risultato di questa cattiva informazione è che le persone tendono a pensare che i disturbi psichici siano qualcosa di cui ci si debba vergognare, che segnano per sempre e che per curarli si possa fare ben poco.
Di solito li inseriscono in un unico grande calderone cui assegnano l’etichetta di “follia” o “pazzia”.
E mentre nessuno soffre di un calo di autostima se scopre di avere la glicemia alta o subisce un intervento di bypass coronarico, tutt’altra reazione ha di fronte a una diagnosi psichiatrica.
Se è la mente che non funziona, il timore è quello di varcare la soglia misteriosa che divide i sani dai “matti”.
C’è infatti un altro pregiudizio diffuso, quello secondo cui i malati mentali siano in qualche modo responsabili del loro disturbo: potrebbero controllarlo e invece vi si arrendono in quanto troppo deboli per resistervi. Così, mentre è normale provare compassione e solidarietà per un malato di cancro, viene percepito altrettanto normale provare diffidenza, rabbia o fastidio per un malato di schizofrenia o di depressione.
Non di rado, anzi, espressioni quali “malato mentale”, “psicopatico” o “schizofrenico” vengono usate alla stregua di insulti.
Un altro pregiudizio è quello dell’incurabilità: esistono invece molti strumenti efficaci, sia farmacologici sia psicoterapeutici.
Che l’isolamento sociale e la segregazione non abbia alcun beneficio per i malati, e anzi aggravi la patologia, è un fatto ben noto, ben presente a chi nel 1978 ha approvato la famosa legge 180, detta anche “legge Basaglia” dal nome dello psichiatra veneziano che la promosse.
Questa legge, ancora in vigore, aboliva i manicomi e vietava di aprirne di nuovi: al loro posto doveva essere creata una rete di centri ambulatoriali, mentre i malati avrebbero dovuto essere progressivamente integrati nella società. A impedire la sua reale applicazione resta lo stigma: poiché la società non è preparata ad accogliere i malati più gravi, è in genere la famiglia a farsi carico di loro, spesso senza alcun supporto sociale.
Ad oltre trent’anni dall’entrata in vigore di questa norma garantista di diritti umani nello scenario mondiale, all’enunciare una tematica relativa all’ambito psichiatrico, persevera ancora lo stato emotivo della paura.
Il presentare i problemi della salute mentale e della sicurezza in maniera correlata non fa altro che alimentare il timore della diversità, che si generalizza a ciò che è ignoto, sconosciuto o non controllabile. Ogni qualvolta echeggia la voce che chiede la riapertura degli ospedali psichiatrici la nostra società da voce e sfoga una paura profonda, una paura che ognuno ha nei luoghi più reconditi del proprio animo: quella di impazzire.
Creare e progettare opportuni spazi di confronto e di dialogo su questi temi, che vengono a volte ignorati, coinvolgendo esperti, pazienti e familiari, è particolarmente importante per iniziare a combattere in maniera attiva questa forma di violenza sinuosa “La parola d’ordine per i soldati, e non solo per i soldati ma per chiunque soffra di qualche tipo delle così chiamate malattie mentali, è che c’è speranza. C’è speranza là fuori. Ci sono soluzioni là fuori. Ci sono cose disponibili in grado di ridarvi la vita. Di non farvi avere tendenze al suicidio. Di non farvi porre fine alla vostra vita. Ma di restituirvi la vita. Di purificare il vostro corpo. Di essere la persona che eravate solito essere. C’è sempre una soluzione per qualsiasi situazione ed è là fuori, se la si cerca (non certo isolandosi).
Ecco i pazzi. I disadattati. I ribelli. I facinorosi . Le spine nei fori quadrati . quelli che vedono le cose diverse. Non sono appassionati di regole. E non hanno alcun rispetto per lo status quo. Si possono citare, essere in disaccordo con loro, glorificare o denigrarli. L’unica cosa che non si può fare è ignorarli. Perché cambiano le cose. Spingono la razza umana verso il futuro. Mentre alcuni possono vederli come pazzi, noi li vediamo come geni. Perché le persone che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, sono quelli che lo fanno davvero
(apple, think different)
G.d.P.